Perché i bambini piangono
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- 7 gen 2019
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 9 feb 2019
Questo articolo è dedicato a tutte le neo mamme o neo papà che si trovano a fare i conti con il comportamento a volte enigmatico dei propri piccoli.

Molti di voi si saranno chiesti come mai non basti nutrire e pulire il bambino per far in modo che questi smetta di piangere una volta lasciato nel suo lettino. Vi siete mai chiesti quale sia il significato di tale pianto? Ovviamente la risposta più semplice è che voglia essere preso in braccio, ma sarà il modo in cui interpretate questa richiesta che influenzerà la vostra modalità di risposta. Alcuni pensano sia un mero capriccio, dal quale non dipende il suo benessere. In questo caso la reazione sarà di ritenere giusto non acconsentire a tale richiesta e il piccolo continuerà ad usare il pianto per raggiungere il suo scopo. Oppure potreste pensare che il bambino ne ricavi un piacere addirittura erotico nello stare a contatto con la madre e nell’evitare di prenderlo in braccio cercherete di non promuovere tendenze che vi sembrano poco opportune.
La programmazione genetica
Ma facciamo un passo indietro, molto indietro, ai primordi della specie il “mantenimento del contatto” era la variabile più importante per assicurarsi la sopravvivenza, ancor più dell’essere nutriti e puliti. Nell’ambiente in cui vivevano i primi esseri umani il fattore di pericolo più evidente era lo stare da soli, al buio o l’essere in presenza di estranei, riuscivano a sopravvivere solo quei bambini che piangevano moltissimo in quelle circostanze. Questo è il motivo per cui i nostri piccoli piangono disperati quando vengono lasciati soli o al buio. Sono agiti da paure ancestrali che avevano un senso nel nostro più remoto passato. Ovviamente nessun bambino adesso lasciato nella sua stanzetta rischia la morte, ma la nostra programmazione genetica, creata in milioni di anni della nostra storia, ci ha lasciato in eredità tale comportamento difensivo. Quindi nostri piccoli piangono non perché sono viziati, non perché hanno ricevuto un rinforzo positivo, tanto meno perché sono regolati da pulsioni sessuali o dal bisogno di eliminare la frustrazione. Piangono, semplicemente, perché hanno bisogno di assicurarsi che la madre, o chi per lei, sia lì per loro a proteggerli e perché attraverso i suoi abbracci gli sia garantita la possibilità di sopravvivere. Proprio come accadeva milioni di anni fa. La teoria dell’attaccamento di John Bowlby
Questo modo di vedere il nostro funzionamento fa capo alla teoria dell’attaccamento di John Bowlby che, attraverso i costrutti evoluzionistici e le ricerche nel campo dell' etologia, ha evidenziato come le reazioni dei nostri piccoli siano analoghe a quelli degli altri cuccioli, in modo particolare dei primati. Queste ricerche dimostrano come si può sopravvivere solo se forniamo dei legami affettivi e se manteniamo la prossimità con qualcuno da cui ci aspettiamo di essere amati. La nostra personalità sarà influenzata dalla qualità delle relazioni di cui abbiamo fatto esperienza. Vi starete chiedendo “ma cos’è l’attaccamento?”. Si tratta di una sorta di assetto mentale a base innata, presente fin dalla nascita, del quale non si ha consapevolezza, che ha la funzione di segnalare i pericoli e registrare i malesseri fisici ed emotivi che possono rendere vulnerabili. Attraverso queste segnalazioni i piccoli, già milioni di anni fa, venivano spinti a cercare in maniera automatica il contatto con una figura specifica. Di conseguenza nella figura che si prende cura del bambino si attiva un altro sistema sempre a base innata, il sistema dell’accudimento, un assetto mentale che la spinge a rendersi disponibile ad aiutare e confortare attraverso la vicinanza fisica e le coccole.

L' esperienza del bambino
Come facciamo ad essere certi che se accorriamo al pianto del nostro bambino non ne faremo un viziato o vizioso? Per spiegare ciò faccio affidamento alle ricerche di Mary Ainsword: la studiosa ha dimostrato come laddove le madri accorrono alle richieste del loro bambino è probabile che nei primi mesi il pianto comunque non si riduca. Di certo diminuirà di frequenza a partire dal sesto mese di vita. L’ipotesi interpretativa è che i piccoli formino delle aspettative e formulino inconsapevolmente previsioni sulla disponibilità della madre ad accorrere. Se fanno esperienza di una madre che, appena loro hanno paura e la manifestano, corre a consolarli, pian piano si tranquillizzano. Sanno di poter contare su qualcuno che in caso di necessità non li lascia nell’angoscia. Quindi già nella seconda metà del primo anno di vita incominciano a piangere di meno. I bambini che fanno questo tipo di esperienza diventano “sicuri”, ovvero chiedono conforto se sono a disagio, ma riescono a esplorare l’ambiente con tranquillità se stanno bene. A un anno, quando sono in grado di camminare, riescono ad affrontare un luogo estraneo, se lasciati soli piangono, ma si fanno presto distrarre (pensate alle reazioni dei vostri piccoli quando devono affrontare l’inserimento al nido) perché sanno che la madre non li abbandona. Non fanno altro che utilizzare la madre come “base sicura”, citando Bowlby : 'La madre deve porsi per il piccolo come colei (…) cui possa tornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato. In sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, ma intervenendo solo quando è chiaramente necessario.''. (Bowlby 1988,p10). Dunque le caratteristiche di colei o colui che si occupa primariamente del bambino devono essere essenzialmente due per poter fungere da base sicura per il suo piccolo: l’essere sensibili, cioè saper riconoscere i bisogni del piccolo e l’essere responsive, cioè saper rispondere con prontezza a tali bisogni, soprattutto il conforto. Ma cosa accade se queste due funzioni vengono meno?
Nel prossimo articolo lo scoprirete, tuttavia, se siete impazienti, vi consiglio questo splendido libro “Attaccamento e Legami” scritto dalla Professoressa Emerita Grazia Attili, una donna fonte di continue ispirazioni.
Attaccamento e legami. La costruzione della sicurezza. di Grazia Attili, San Paolo Edizioni
a cura della Dott.ssa Veronica Satalino
Psicologa Clinica e di Comunità Specializzanda in Psicoterapia Cognitivo-Interpersonale. Iscritta all'Ordine degli Psicologi del Lazio N°19382
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